Sotto il Salone Al di là di ogni considerazione di carattere storico,artistico,culturale e sociale il Palazzo della Ragione ha sempre fatto leva sulla fantasia popolare per la mole imponente e per l'ampiezza della sala pensile considerata la più grande d'Europa. Un complesso architettonicamente geniale tanto da essere definito "ll monumento più monumento di Padova" o semplicemente "Il monumento di Padova". Padovani e stranieri, studiosi o semplici curiosi per prima cosa notano del Salone, come popolarmente e generalmente viene chiamato, la mastodontica struttura. Il grande poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe, acuto osservatore e annotatore delle emozioni che i viaggi gli sapevano suscitare, diede del Salone una definizione penetrante ed emblematica: la sala e talmente grande che difficilmente si arriva ad immaginaria anche dopo averla appena vista. Un grand'uomo padovano, Giovanni Battista Belzoni, con ancora negli occhi la visione dei grandi templi di Karnak e di Abu Simbel, scrivendo nel l8l9 da Alessandria d'Egitto alle autorità padovane, suggeriva di collocare le due statue egizie da lui donate alla città natale nel "Gran Salone di Padova", una struttura dunque degna dei maestosi monumenti faraonici. Come avviene per le opere che destano meraviglia per la loro singolarità,anche per il nostro palazzo non manca il sottile aggancio con il misterioso Oriente. Si narra che i padovani avendo visto il modello del tetto di un grandioso palazzo indiano portato da fra' Giovanni Eremitano al termine dei suoi viaggi, abbiano deciso che anche il loro palazzo fosse coperto nello stesso modo. Da una consimile leggenda non poté sottrarsi un'altra costruzione-capolavoro del nostro territorio,Il palazzo-castello detto Cataio che la tradizione vuole essere stato costruito in base alle descrizioni lasciate da Marco Polo sul palazzo imperiale di Pechino. Leggende suggestive, non suffragate da testimonianze certe, ma che rivelano come il popolo sia spesso affascinato dalle meraviglie dell'arte. Anche il grande esploratore inglese Bichard Burton, lo scopritore dei laghi equatoriali africani, non sfuggì a questa mania orientale. Al termine della sua carriera, nelle vesti di console inglese a Trieste se ne venne a Padova per visitare i luoghi e le memorie di Giovanni Battista Belzoni del quale aveva sentito parlare con grande ammirazione da alcuni vecchi indigeni del Benin dove il Belzoni era morto nel 1823. Orbene il Burton dopo avere descritto il Salone come elemento divisorio delle due Piazze delle Frutta e delle Erbe, lo definì completamente fuori posto perché realizzato secondo " un'idea architettonica derivata da un palazzo indù ". Il popolo ha sempre amato il Salone come una creatura propria, e giustamente, essendo il simbolo della libertà che il popolo stesso con le sue leggi ha saputo conquistarsi, così come la basilica del Santo, voluta dal popolo negli stessi anni in cui nasceva il Salone, è il simbolo della spiritualità e della fede della città. Da sette secoli i padovani gli si stringono attorno per averne sicurezza e prosperità. Nelle ore mattutine il Salone raccoglie come madre amorosa i padovani per nutrirli, saziarli, rallegrarli. Essi giungono da ogni parte della città percorrendo le strette strade, una decina, che sfociano nelle due piazze.In questo contatto Padova svela la sua vocazione commerciale, mette a nudo un secolare filone rimasto intatto e non corroso dai tempi e dalla smania di rifare.In questa attività mattutina si rinnovano i riti antichi, cioè la vendita di quegli stessi prodotti offerti nelle epoche comunale, signorile e del dominio veneziano: il pane e il vino, la carne, le uova e il pesce, la frutta e la verdura e quindi le scarpe, i tessuti, i gioielli, i fiori. Riti ordinati secondo le regole delle fraglie e delle corporazioni con i prezzi e le misure indicati dai calmieri. Padova, così spesso distruggitrice di sacre memorie, non ha mai infranto questo flusso vitale che promana dal Salone, uno dei pochi elementi di tradizione vitalizzato dal popolo e dal popolo conservato. Anche il dialetto rifiorisce in questo abbraccio mattutino in cui si mescolano le parlate dei borghi e della periferia e ancora, rimasti miracolosamente vivi, gli accenti ruzantiani provenienti dal contado. Fra la moltitudine eterogenea e vociante si captano battute ironiche e divertenti, dialoghi briosi e arguti, si riciclano sapide frasi degli antichi padri. Una cultura del popolo ancora vitale circoscritta nelle due piazze ad oriente delle quali due istituzioni calamitavano l'interesse dei frequentatori perché destina te alla sopravvivenza primaria dell'uomo: la Camatta in Piazza della Frutta dove si vendeva quel famoso pane diventato proverbiale "Chi va due volte alla Camatta, non si può più partir da Padova" e che fu cantato dal Ruzante e dal Dottori; il Fondaco delle biade in Piazza delle Erbe ovverossia il deposito dei cereali per il fabbisogno della cittadinanza. Questo mercato era nel Medioevo la testimonianza più viva dell'autosufficienza di Padova e i prodotti che giungevano dal territorio costituivano la ricchezza di cui la città poteva disporre e andare fiera. Quanto più la campagna era fertile e ben curata tanto più la città era destinata a prosperare e a rafforzare la propria vocazione mercantile. Nella Piazza delle Erbe, a sua volta, era prospero il mercato ha della carne con la "Casa dei macellai" sede della società ma anche punto di vendita. E ancora erano frequentati i mercati del pesce, delle calzature, dei panni, delle sciarpe di seta e di lana, delle crusche, dei legumi, del frumento e delle biade essendovi ad oriente, come s'è detto, il Fondaco delle biade; ad occidente animatissimo era il mercato del vino che addirittura diede il nome ad una scala, anzi la stessa piazza inizialmente si chiamava "Piazza del vin".Per quanto riguarda le botteghe allineate al pianoterra e nell'ammezzato del Salone è probabile che esse abbiano suggerito la prima idea non solo del mercato coperto ma anche della fiera moderna davvero emblematico che il Salone diventasse parte importante della 1a Fiera Campionaria d'Italia, nel 1919, quando gli imprenditori padovani diedero l'avvio al rifiorire dell'economia nazionale fra le macerie di una città lacerata dalla guerra a sei mesi dall'armistizio e prima ancora che fosse sancita la pace con l'Austria. La Sala della Ragione ospito in quell'occasione ben nove sezioni legate a vari settori industriali e con l'ala sinistra del vecchio Foro Boario in Prato della Valle e la Scuola di disegno Pietro Selvatico, costituì una delle tre sedi di cui si componeva la Fiera Campionaria. La fine della dominazione ezzelina -durata 1237 al 1256 - permise ai Padovani di riprendere il loro autonomo cammino politico, iniziato nell'ultimo quarto del secolo precedente, e di presentarsi nel Trecento forti di un illuminato Comune. Padova infatti ritornò a primeggiare in questo periodo, fra i centri maggiori della Padania, per il suo saggio governo e per la sua prosperità economica. Lo stesso volto edilizio urbano riportò benefici dalla rinnovata situazione; infatti molti fabbricati sorsero, all'interno della sua cinta muraria, proprio nell'arco di tempo compreso tra il 1260 ed il principio del secolo successivo. Non a caso, quindi, nel 1306 anche il suo possente Palazzo della Ragione ("Salone"), sorto nel 1218-1219 poco prima della fondazione dell'Universita ( 1222 ) e dell'inizio della costruzione della chiesa del Santo (1235 ca. ) fu sensibilmente rialzato e completato con le logge laterali qualche anno più tardi. Tale edificio rimane pertanto come il simbolo più evidente dell'alta civiltà raggiunta nel basso Medioevo dalla popolazione padovana, allora in gran parte dedita con energia ed intelligenza ai traffici commerciali, alla tessitura, all'arte della conceria, all'edilizia, ai trasporti fluviali e all'industria molitoria. A queste solide attività si univano contemporaneamente anche quelle più semplici, ma più diffuse, riguardanti la continua fornitura di alimentari, di vestiario e delle tante cose necessarie al vivere quotidiano. Le operazioni commerciali per soddisfare le suddette esigenze avvenivano in gran parte, fin dal Duecento, nei mercati posti nelle piazze attorno al "Salone", che non decaddero minimamente nel secolo successivo,allorquando la città fu più volte scossa da avvenimenti bellici e da epidemie. E cosi ancora pulsanti e pittoreschi,questi mercati( talvolta variati,ridotti o aumentati) dopo il lungo cammino plurisecolare sono giunti ai giorni nostri,pronti a proiettarsi, più che mai vitali, verso il futuro.
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